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L'omelia di don Francesco: l'avverbio «Umilmente» parla anzitutto alla nostra competenza.

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L'omelia di don Francesco Cortellini, una riflessione da condividere e un augurio di Natale a tutta la comunità scolastica

Nel XXXIII canto del Paradiso, Dante compone una preghiera con la quale san Bernardo si rivolge alla Vergine Maria per chiedere che il Poeta possa godere della visione di Dio. In questo testo
riecheggiano le parole del Magnificat, il cantico del brano del Vangelo secondo Luca che oggi abbiamo letto. In modo particolare sentiamo come Dante abbia sullo sfondo il cantico di Luca quando l’invocazione di san Bernardo definisce Maria «umile e alta più che creatura» (Dante, Paradiso, XXX,2), chiaro rimando alle «grandi cose» che Dio ha compiuto in Maria «perché ha guardato all’umiltà della sua serva» (cfr. Lc 1,48-49), come poco fa abbiamo sentito.
Provocato da questi testi, è il tema dell’«umiltà» a suscitare un pensiero da condividere insieme in questo ultimo scorcio di anno che sta per chiudersi.
«Umilmente» è un avverbio che mi sembra significativo che ci caratterizzi, particolarmente in quanto docenti: 1) per la nostra competenza, 2) per il nostro ruolo e 3) per la nostra vita.
«Umilmente» parla anzitutto alla nostra competenza.
Un mio caro amico mi ha consigliato un bel libro sull’universo sconosciuto dal titolo che è tutto un programma: Non ne abbiamo la più pallida idea (1 Cfr. J. CHAM – D. WHITESON, Non ne abbiamo la più pallida idea. Guida all’universo sconosciuto, Longanesi, Milano 2019 3 .)

Questo libro apre una interessante finestra sulla nostra conoscenza, consegnando al lettore la consapevolezza che di fronte a molte domande sull’universo, per circa il 68% non possiamo dire altro che «Non ne abbiamo la più pallida idea». La consapevolezza dell’impossibilità di dare una risposta a tutte le domande, sostengono però gli Autori, non schiaccia l’uomo nella rassegnazione, ma lo porta a «considerare questa situazione come un’incredibile occasione: un’occasione per indagare, imparare e andare ancora più in profondità» (2 J. CHAM – D. WHITESON, Non ne abbiamo la più pallida idea, 18.), e, mi permetto di aggiungere, ad affidare ad altri, che verranno dopo di noi, il compito di trovare le risposte ancora mancanti o ad affinare quanto è stato provvisoriamente raggiunto. La consapevolezza che la conoscenza dell’uomo procede, si affina, si amplia, ci porta a renderci conto che quel che sappiamo, lo sappiamo «umilmente», provvisoriamente, e con la stessa umiltà lo trasmettiamo ai nostri studenti. In questo modo il nostro fare scuola, mi pare di poter dire, raggiunge in pienezza il suo obiettivo: non solo trasmettere conoscenze, ma suscitare la curiosità di apprendere per andare sempre oltre quel «tutto» che ci sembra di sapere, ma che, in realtà, è solo «parziale» e «provvisorio».
In secondo luogo, «umilmente» è caratteristica che mi pare sia giusto parli al nostro ruolo, particolarmente per quanto riguarda la forma delle nostre relazioni con i ragazzi.
Se è giusto che umile sia il loro modo di apprendere, è altrettanto giusto che «umile» sia pure il modo di insegnare e di relazionarci con i più giovani.
«Umilmente», parla anche al nostro «io», ricordandoci che lo sviluppo della nostra personalità, anche da adulti, non è concluso, ma aperto, e che si compie anche attraverso le relazioni con gli
alunni, in modo particolare con quelli che maggiormente ci sfidano e quasi ci obbligano ad una riconfigurazione del nostro modo di fare nei loro confronti.
Penso che nessuno di noi possa negare il fatto che i rapporti con i ragazzi ci hanno portato nel corso degli anni a «strutturarci» fino a farci diventare qualcuno di diverso rispetto a quando
abbiamo iniziato la nostra attività. Questo cambiamento può essere sia un miglioramento che il suo contrario, e in questo secondo caso siamo chiamati ad una verifica. Certamente più negativo, però, sarebbe un atteggiamento fissista, impermeabile, derivante dall’idea che siamo già «a posto», poiché senza necessità alcuna di miglioramento.

Accogliere l’invito a disporci in modo umile nei confronti dei ragazzi, così come dei colleghi e di tutte le figure scolastiche che vivono la scuola, ci aiuta a divenire sempre più adatti a vivere quello
che è il nostro ruolo, perché sempre più vissuto nella disponibilità a lasciarci interpellare dall’altro, con le sue domande, i suoi bisogni, le sue qualità che permettono di tirare fuori il meglio di noi
stessi. E mentre dico questo, penso a tanti volti concreti che in questi anni ho conosciuto e che ho avuto e ho la fortuna di incontrare settimanalmente.
Forse è difficile, almeno per me lo è, dire «grazie» ai ragazzi che sono nostri studenti e ai colleghi che incontro, però, almeno dentro di noi oggi lo possiamo dire e magari esprimerlo rientrando a
scuola a gennaio. Infine, «umilmente» è avverbio che mai come al termine di quest’anno solare si impone di fronte all’orizzonte della nostra vita. Un anno fa, la nostra scuola era ancora scossa dalla recente perdita di un docente di tutti amico e per tutti punto di riferimento. Al suo ricordo, quest’anno, aggiungiamo quello di altri tre insegnanti che tragicamente hanno concluso la loro vita tra il mese di aprile e il mese di giugno. Il loro ricordo per noi oggi si fa preghiera, ma ci porta anche ad avere uno sguardo necessariamente «umile» sulla vita umana, che siamo chiamati a riconoscere «misteriosa».
Lo scorso anno scolastico si è concluso con particolare fatica, ponendoci di fronte a domande che sono state e restano senza risposta. Di fronte alla morte, la fede ci apre a risposte vere, ma umili, poiché il raggio di luce che dalla fede proviene non squarcia totalmente il buio che ci avvolge di fronte alla morte, lo rischiara solo in parte. Credenti o non credenti, di fronte a circostanze drammatiche, ci sono domande che accomunano tutti; sono le domande che l’uomo si pone da sempre, domande che mi piace richiamare in questa forma poetica e di straordinario impatto emotivo:
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale? (3 G. LEOPARDI, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.)
Quanto ci ha toccato pochi mesi or sono ci spinge a riconoscere che la vita umana non può essere abitata che con estrema umiltà: perché fragile, perché non sempre comprensibile, perché esposta
al pericolo e al rischio.
Benché segnati da questi profondi interrogativi, sempre con umiltà, oggi ancora ci ricollochiamo però dentro la vita, per riscoprire insieme ai ragazzi e per i ragazzi il senso di affidabilità e di
promessa che la vita porta con sé, nonostante tutto, e così non lasciare che il dolore vero che
stavamo e forse stiamo ancora provando, abbia l’ultima parola. Perdonatemi questi ultimi pensieri che forse non si addicono ad un momento prenatalizio.
Umilmente, però, tutti quanti, questi ultimi, insieme con i primi pensieri, mi sento di condividerli con voi. Come è giusto che sia, chiudo con un augurio: ispirati da questa pagina di Vangelo, accogliamo l’umiltà che ci è stata suggerita, per vivere questo tempo di riposo che le feste e le vacanze portano con sé, ma anche per entrare nel nuovo anno che ci sta davanti e riconoscere che, fra le pieghe e le rughe della storia, dolorosamente sentite in quest’anno che si chiude, nella fede, possiamo riconoscere un Dio che opera sempre per fare grandi cose per le nostre vite, nonostante molto di ciò che ci accade sembri dire il contrario.

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